L’Ue metta al centro la nuova agenda di Draghi. In gioco il futuro dell’Europa
“Un libro diceva: noi siamo un giardino, ma fuori c’è la giungla. Non è che le liane non si insinuino. L’Europa deve essere padrone del proprio destino”, sono queste le parole di Mario Draghi intervistato dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana al festival Il Tempo delle donne. È la prima apparizione pubblica dell’ex governatore della BCE dopo la stesura del suo report sulla competitività dell’Ue.
Un documento che sa di rimprovero quello presentato alla presidente della commissione Ursula von der Leyen: 400 pagine in cui si evidenziano le difficoltà che attraversano la comunità europea, delineando un contesto non proprio incoraggiante. Il senso del lavoro di Draghi si riassume così: se non si attuano riforme radicali l’Ue sarà sempre più marginale nello scenario globale, con seri rischi per il proprio tessuto sociale. Non è la prima volta che l’ex premier italiano lancia dei moniti alla comunità europea su problemi diventati ormai atavici, ma adesso il lusso della procrastinazione, oltre ad avere costi importanti, non è più giustificabile: “Se non agiamo, saremo costretti a compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà”, così commenta Draghi.
Gli appunti di Draghi non sono di certo carezze alle classi dirigenti europee, a cui si rimprovera un eccesso di sonnolenza, che prospettano soluzioni controproducenti come i dazi in risposta alle sfide che incombono sul mercato unico. Soluzioni miopi di una politica sprovvista di visione che trova nei fattori esogeni, oltre a dei capri espiatori elettorali, le cause dei problemi.
La sostanza è però un’altra: l’Ue continua a perdere competitività sul mercato tecnologico (tra le prime 50 imprese tecnologiche su scala globale soltanto 4 sono europee), incapace di investire nei settori tecnologici emergenti che garantiscano una prospettiva di crescita futura continua. Ecco come si spiega un reddito pro capite statunitense, dal 2000 a oggi, quasi raddoppiato rispetto a quello europeo, con dei ritmi di crescita economica, quelli statunitensi, pressoché irraggiungibili. Con la riduzione della competitività è stata messa in discussione l’indipendenza dell’Europa: aver esternalizzato i bisogni energetici verso la Russia, quelli commerciali verso la Cina, affidare agli Stati Uniti la difesa dei propri confini, ha reso gli equilibri dell’edificio europeo vulnerabili (la guerra in Ucraina è un esempio lampante). Questo significa minor potere d’acquisto, meno posti di lavoro, un welfare ridimensionato e con poche risorse. Se lo stato di cose non muta il gap con la Cina e gli Stati Uniti diventa incolmabile.
I ragionamenti di Draghi spingono verso possibili percorsi di recupero della competitività. Come fare? La proposta lanciata nel report di un piano di debito comune europeo di 800 miliardi è chiaramente incoraggiante, metterebbe le classi dirigenti europee davanti alle loro responsabilità, senza esitazione. Draghi propone una strategia industriale a lungo termine finalizzata al rafforzamento del processo di aggregazione europeo (non c’è spazio per idee sovraniste o populiste). Certo che servono i soldi, ma senza un ampio progetto su scala continentale guidato dalla politica europea, che metta in relazione tutti i maggiori attori economici del continente, incoraggiando la collaborazione tra i paesi, attraverso una comprensione realista e trasversale delle sfide del presente, si rischia di essere davanti all’ennesimo buon proposito inascoltato.
Questa volta però un futuro declinante per l’Europa sembra ineluttabile, e il tempo per agire è sempre meno.