Come finanziare chi non riesce a farlo sul mercato? Come sottrarsi alla speculazione?

Si torna a parlare di possibile nuova discussione sul MES. Il voto parlamentare del dicembre scorso, già ampiamente anticipato dalle dichiarazioni di Meloni e di autorevoli esponenti del governo, ha certificato la volontà della maggioranza di non sostenere, pur con qualche timido distinguo e cautela, la riforma del MES, già approvata invece dagli altri Paesi che ne fanno parte in quanto parte dell’unione monetaria. I tempi per un eventuale secondo esame, ammesso ci sia la volontà politica, sono di almeno sei mesi (si va a giugno, forse). Nel frattempo, crescono le pressioni per l’approvazione come nel caso del ministro delle finanze del Belgio, che ha la presidenza Ue, tornato lunedì a incalzare l’Italia.

Qualche passo indietro. Il Meccanismo Europeo di Stabilità nasce nel 2012 ed è un organismo intergovernativo, quindi non sottomesso a Commissione e Parlamento europeo. È uno degli strumenti nati dalla crisi dell’eurozona di oltre dieci anni fa. Per come si configura, è una sorta di riserva d’emergenza per gli stati che incontrino difficoltà nel finanziare il proprio debito sul mercato, eventualità tutt’altro che rara come dimostrano i casi di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna (allora il nodo era più sulle banche). Insomma, il MES ha una ragione di fondo perché permette di sottrarre alla speculazione i Paesi più fragili. È bene ricordare che l’iter della riforma del MES è lungo e accidentato e ha subito già diverse battute d’arresto.

Sostanzialmente, il MES prevede due linee di intervento: una più corposa, composta da prestiti (lo strumento ha una capacità di circa 500 miliardi), che fa fronte a una difficoltà urgente di un paese ed è necessariamente accompagnata da un memorandum che prevede misure di aggiustamento macroeconomico, l’altra prevede linee di credito precauzionali per i paesi stabili dal punto di vista economico e finanziario ma che vanno incontro a congiunture particolarmente sfavorevoli. La riforma avrebbe previsto una semplificazione delle condizioni per la concessione dell’assistenza finanziaria, senza nessun particolare compito di sorveglianza.

La domanda da porsi è su quali strumenti siano effettivamente utili per sostenere gli Stati che riscontrino difficoltà nel finanziarsi, fermo restando che la sostenibilità del debito è sempre più una chimera visto che le popolazioni europee invecchiano e il Pil rallenta. Nonostante le evidenti difficoltà delle finanze pubbliche, gli Stati, soprattutto dalla pandemia in poi, sono “tornati” al centro dell’attenzione, dovendo far fronte alle emergenze sanitarie prima ma anche alle problematiche sociali derivanti. È pur vero che in alcuni casi, inoltre, come quello della Grecia, le riforme di accompagnamento non hanno portato a una ripresa dell’economia, anzi, ma è anche vero che si tratta di paesi con debolezze strutturali come l’assenza di un solido manifatturiero e viceversa la dipendenza dall’economia turistica.

Si prevedono tempi complessi per l’Unione, che non esiste come fattore geopolitico e di potenza, e tantomeno come fattore militare (nessuno parla più di esercito europeo), stretta tra crisi da scarsità energetica e conseguenze della deindustrializzazione (in Europa non si produce più acciaio, per esempio). E allora diventa ancor più decisivo poter disporre di strumenti che permettano quantomeno di contenere i danni.

Di Lorenzo Somigli

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